LANFRANCO CARETTI

Da ‘Il perpetuo presente di Sereni’

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Dentro agli Strumenti umani c’è ancora, e si può rin­tracciarlo qua e là, il disarmato ragazzo lombardo di Frontiera e il prigioniero murato e immobile d’Algeria («Un disincantato soldato. | Uno spaurito scolaro», Il grande amico), e anche il reduce del ’45, e tutti stanno dentro a questo ‘presente’ antico e nuovo, così come nella maturità piena dell’uomo Sereni convivono tutto­ra, acuite e dilatate dall’esperienza, l’adolescenza e la giovinezza. In questo senso Sereni sta scrivendo sempre lo stesso libro, e gli Strumenti sono un’opera aperta al flusso ininterrotto della vita e coinvolgono anche le più remote contestazioni, crescono su di esse e vi si nutrono, sì che la loro poesia procede per accumulazioni succes­sive, sempre svolgendosi dai nodi vitali originari, mai di­staccandosi da essi, ma chiarificandoli e approfonden­doli. Come per legge di natura, la poesia di Sereni è dunque venuta via via ramificandosi, passando da strut­ture semplici a strutture complesse, ha ampliato nel buio del sottoterra le sue radici (le intime convinzioni, le persuasioni morali…), le ha faticosamente nutrite e lar­gamente irradiate, le ha nutrite di vividi succhi, di fertili umori; e di pari passo, nell’aria libera, la pianta s’è irro­bustita, ha messo fronde, è cresciuta con il crescere dell’età del poeta, appunto come un organismo vivente, secondo una metamorfosi che all’ultimo stadio invera tuttavia le fasi anteriori del processo e nessuna ne rinne­ga. Perciò anche la lingua e lo stile di Sereni si sono man mano arricchiti e trasformati: dalle forme semplici, qua­si povere, monocordi, di Frontiera, dove le figure e simboli evocano appena emozioni rapide, fremiti repentini, e spesso oscillano tra un piccolo realismo oggettivo e una vaga allusività ermetica, allo stile del Diario, ormai spogliato d’ogni inflessione amabile, d’ogni indulgenza elegiaca, e tutto teso ad una vibrante e soffocata inten­sità, mettendo a partito soprattutto la lezione montalia­na delle Occasioni e quella del Saba più intimo e meno leggiadro, sino infine alla lingua e allo stile degli Stru­menti dove la nuova vita correlata, superata l’autobio­grafia, porta a nuove strutture sintattiche, ben più com­plesse, dove la lingua s’apre arditamente al parlato corrente e poi, a contrasto, s’impenna in citazioni auli­che, in preziosismi letterari, dove il dialogato entra in modo sempre più frequente, dove riccamente si articola, tra legge e libertà, la varietà metrica, e dove l’antico tes­suto lirico si apre ormai arditamente anche all’ironia, all’invettiva, al dibattito drammatico.

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Da Lanfranco Caretti, Il perpetuo presente di Sereni, “Strumenti critici”, I, 1, ottobre 1966, pp. 73-85, poi come Introduzione a V.S., Poesie scelte, Mondadori, Milano, 1973 e con il titolo originario di Il perpetuo presente di Sereni, in Antichi  e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1976.

 

GIACOMO DEBENDETTI

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Per dirla molto alla lesta, [Sereni] nei suoi primi compo­nimenti giovanili, quelli raccolti sotto il titolo Frontiera (Edizioni di Corrente, Milano, 1941) e Poesie (Vallecchi, Firenze, 1942), è un annotatore di vicende personali, di momenti ed episodi della sua vita. Vita riconoscibile psi­cologicamente, nella sua precisa fisionomia sentimentale e sociale: quegli episodi, anche se appena indicati, hanno nella sagoma, quale il poeta ce la mostra, una consistenza di fatti precisi che spiegano e giustificano lo stato d’animo, il momento espresso in ogni singola lirica.

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Se oggi rileggiamo quelle prime poesie di Sereni, la meraviglia che ci destano dipende da quella contamina­zione della narratività e della purezza, dal modo come prendono atto del costume generale, attraverso la rico­noscibilità umana e addirittura cronistica del protagoni­sta, e dal modo come conservano una traccia di evasività sociale, di assenza. Contaminazione ho detto: ma non giustapposizione o compromesso, anzi equilibrio e omo­geneità tanto più incantevoli, in quanto tutto minacce­rebbe di renderli instabili. Non per niente, a proposito di quegli esordi di Sereni, si parlò di romanzo espresso per momenti lirici e nello stesso tempo gli ermetici, che avevano a Firenze la loro roccaforte e le loro riviste, vo­levano considerare questo poeta come uno dei loro, anzi il loro rappresentante nella civiltà, nella cultura lombar­da e milanese.

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Ma, appunto, l’entrata sottile di una storia personale, autenticabile in quel linguaggio di poesia pura, il fatto che il mondo esterno, quello della natura e quello degli altri uomini, testimoniasse, rispondesse con le sue appa­rizioni e col sentimento che ne emanava agli smarriti, un po’ crepuscolari, momenti e stati d’animo del poeta, avevano già rotto l’angoscia metafisica dell’inspiegabi­lità vicendevole tra l’uomo e il mondo. Le apparizioni del mondo esterno avevano, nel loro presentarsi, un so­lo significato possibile. La molteplicità e la non garanzia dei significati, tipica dell’ermetismo, erano già venute meno. I miti del mondo esterno rispondono all’«esile mito», come lui lo chiama, dell’uomo Vittorio Sereni, con la sua particolare storia, tutta tramata anche di an­gosce, tremori, malesseri. Ma queste angosce e tremori non sono più metafisici: sono il quotidiano malessere e inadattabilità di un uomo non bene accordato con la vi­ta che gli tocca di vivere, e reagisce con pena, ansia, ri­volta, invettiva magari, ma smorzata da un senso del li­mite e come da un decoro morale che l’uomo deve serbare verso se stesso.

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Da Giacomo Debendetti, Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano, 1974 (titolo del capitolo: Sereni, pp. 225-229).

 

 

FRANCO FORTINI

 Da ‘Il libro di Sereni’

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Gli strumenti umani è un libro che può anche essere letto come una raffigurazione della storia italiana — in una cer­ta misura europea — degli ultimi quindici anni. Non sol­tanto per le indicazioni di scena: avvento della Repubbli­ca, ricostruzione, la nuova industria, il passaggio del benessere, la guerra d’Algeria, la Germania del miracolo. Ma per vere e proprie «intermittenze storiche», identifi­cazione di atmosfere, di attimi particolari che diventano sovraccarichi di significato: l’agonia della speranza e del­la gioventù che la ricostruzione implicava e accompagna­va («Nel sonno»); quella della piccola fabbrica accanto alla grande (con l’esattissima intuizione di un potenziale di lotta sopravvissuto solo in situazioni di arretrata tecno­logia, e con la scoperta che solo la grande industria libera dalla illusione intellettuale d’una parte migliore e di una peggiore da salvare o da spendere); gli anni della accu­mulazione e della accondiscendenza sentiti nello spe­gnersi di giornate sportive («a brani una futile passione»), nelle vociferazioni, nella stessa sospensione domenicale dell’esistenza («La poesia è una passione»); l’efferatezza del neocapitalismo europeo colta (come, d’altronde, dal­la prosa dell’Opzione) nell’atto in cui ostenta una dimenticanza, per noi ovvia, di quel che per l’autore è relativa­mente recente e faticoso acquisto.

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Non so se sia esatto parlare di atonalismo, per l’ultima parte di questo libro. (Gli Strumenti stanno al Diario come de Staél a Morandi…) Per quanto — come ho detto —la natura vibratile di questi versi si origini da dislivelli multipli, e da un sistema di intoppi e arresti accuratamente predisposto, resta indiscutibile che la gamma linguistica ed espressiva rifugge da ogni dilatazione, da ogni eccesso e gioca invece sugli scarti minimi, sul «risparmio» classi­co. Nel Sereni del Diario e qui ancora in molte delle più concluse poesie della prima metà del libro, l’atteggia­mento è quello comune a molto nostro Novecento. Ma mentre quello mirava, per tale via, al «dimesso-sublime», Sereni — non foss’altro, per la sua devozione, o compli­cità, verso Apollinaire; e per la sua, decisiva, esperienza su Williams (insieme a quella, ma a contrario, sul «sublime» Char…) — mantiene, sottili e precisi, i suoi intervalli.

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Quel che nel Diario era, com’ebbi a scrivere, oscilla­zione fra purezza e impurità narrativa e quindi fra omogeneità e rischio di eterogeneità, qui ha segnato la preva­lenza del «parlato» e del «narrato» e quindi dei dislivelli linguistici. Ma — e vorrei richiamare l’attenzione su que­sto punto, che mi pare abbastanza importante — l’impa­sto che risulta è non soltanto nuovo rispetto alla mag­gior parte della poesia italiana di oggi ma è una prova ulteriore di quella capacità oggettiva di dire una verità sulla verità storico-sociale del nostro tempo. Infatti, se esamini un campione di questo linguaggio, puoi trovarvi pressoché le medesime componenti del Montale del do­poguerra; ma una disposizione diversa origina molecole affatto diverse e che significano un altro mondo. Dagli schisti lessicali di Montale si proietta un fantasma par­lante che è, nella sostanza, un intellettuale italiano d’una cultura difensiva, ironica, sprezzante e malsicura, che si separa dal volgo verso il convivio di alte e mature bor­ghesie europee; in Sereni, con nessuna o rare concessio­ni alla immediatezza (o agli echi dialettali; solo quel suo «roba», mi pare, è un intenzionale lombardismo…) hai piuttosto il linguaggio medioborghese e medioeuropeo che su di un fondo umanistico, da cui emergono le fre­quenti criptocitazioni, integra non tanto o non soltanto elementi di un lessico d’altra provenienza (tecnico-scientifica) ma cadenze, esitazioni e pause tipiche di quel ceto o genere. Aziendale, è stato detto, proprio perché l’azienda della produttività neocapitalistica liquida ogni illusione di libertà extraziendale. Attraverso tale sottilis­sima imitazione delle intonazioni (se anche mi manca la possibilità di dimostrarlo, è qui certo l’origine della me­trica del Sereni più recente) hai l’introduzione di un ele­mento teatrale, l’inserimento di una seconda o terza vo­ce del dialogo… Più di una trentina di volte in questa cinquantina di composizioni tornano i «dice», i «diceva» e simili. Tecnicamente, le poesie di Apparizioni e incon­tri sono spesso dei mimi.

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Da Franco Fortini, Il libro di Sereni, “Quaderni piacentini”, V, n.26, marzo 1966, pp. 63-74, poi in Saggi italiani, De Donato, Bari, 1974 e in Saggi italiani 1, Garzanti, Milano, 1987.

 

DANTE ISELLA

Dalla Prefazione all’edizione critica dei Meridiani

Con una educazione ermetica corretta da certo suo naturale illuminismo lombardo, tra Parini e Rebora, Sereni è stato sempre fedele a un’idea di poesia nutrita di bellezza, nella linea della nostra più alta tradizione lirica, dal Petrarca in poi; disponibile però, in una visione fenomenologica della realtà, a tutte le offerte della vita. Una poesia che si è aperta via via anche alle molteplici suggestioni  della fermentante società europea del dopoguerra, ma libera, insofferente di posizioni ideologiche; una sorta di sensibile strumento di precisione che doveva consentirgli (nei limiti, dolorosamente avvertiti, della parola scritta, deludente surrogato della vita vissuta) di mettere a fuoco, sui mobilissimi dati dell’esperienza, qualche abbagliante barlume di verità.

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Una posizione gnoseologica come la sua comporta, con la sospensione del giudizio, un incessante confronto tra l’esperienza in atto e i dati già acquisiti, suscettibili sulla base dei nuovi apporti di essere continuamente richiamati in circolo, messi in discussione, arricchiti, mutati, in un fervido andirivieni tra passato e presente e tra presente e passato. Per non dire delle potenzialità non attuate, delle «toppe di inesistenza | calce o cenere pronte a farsi movimento e luce». Sta qui la spiegazione delle doppie date apposte a molte poesie, fin dai tempi della prima Frontiera, «una data di “partenza” e una di “arrivo”» (come dichiara la Nota degli Strumenti umani): con la precisazione, fondamentale, che il margine di tempo che le separa, spesso assai largo, «non implica in alcun modo fasi di lavorazione protratte al segno dell’incontentabilità o del rigore dal punto di vista strettamente stilistico, bensì una serie di modifiche e aggiunte, di deviazioni e articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni offerte o suggerite, quando non imposte, dall’esistenza, dal caso, dalla disposizione dell’ora».

Non altro sta a significare il titolo della sua ultima raccolta, Stella variabile, con la citazione sul risvolto di copertina di Montaigne («La vita fluttuante e mutevole»); o l’“epigrafe” che la commenta («La natura che alletta e dissuade. La bellezza onnipresente e imprendibile. Il mondo degli uomini che si propone al giudizio e si sottrae, e mai passa in giudicato»): indicazioni di lettura precise, insistenti, che Sereni avrebbe voluto sostituire in una eventuale ristampa con una definizione di “stella variabile” tratta da un manuale di astronomia nautica: una formulazione certo più scientifica ma sostanzialmente identica. Sicché su tutta l’opera sua si potrebbe idealmente porre il cartello di «Lavori in corso».

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Da Dante Isella, Prefazione a V.S., Poesie, a cura di Dante Isella, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1995.

 

Da ‘La poesia di Vittorio Sereni’

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Si è sempre dibattuta la questione dell’appartenenza o non appartenenza del primo Sereni all’area dell’ermetismo coevo, perlopiù per negarla sul fondamento di un’opposizione tra la «poetica della parola» degli altri e la «poetica degli oggetti» sua e dei suoi: sognanti negli anni dell’Università milanese (secondo la testimonianza di uno di loro) «un’immagine che fermasse il sentimento inquieto e reale della nostra presenza – non un’assenza, un rifiuto, una platonica libertà». Resta però il fatto che proprio questa esigenza di chiudere in contorni fermi la propria inquietudine esistenziale determina un’individuazione rigorosamente riduttiva dei realia e dei materiali adibiti a nominarli. Sicché, sia pure per eterogenesi dei fini, il risultato, in Frontiera e nel Diario del ’47, è una lingua poetica diversa, ma non meno aristocraticamente selettiva di quella degli adepti dell’orfismo fiorentino. Non volendo, a scanso di equivoci, chiamarla ermetica, si potrebbe dirla «petrarchesca», se è lecito nominare dal Petrarca, per analogia, qualsiasi processo di decantazione della complessità del reale per estrarne delle levigate essenze primarie, tali da riassumere in sé, sublimandolo, l’intero universo.

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Il risultato (della combinazione tra prosa e versi) è la lingua tutta particolare del Sereni maggiore, dalla metà degli anni Cinquanta in poi: una lingua che, in sintonia con i «più avanzati tentativi della poesia di oggi» tende a «emulare le nuove codificazioni della musica atonale»: volta a realizzare non una poesia autre, cioè «una cosciente antipoesia», ma, piuttosto, «una poesia nata dalla prosa che è il miraggio non sempre illusorio dei poeti d’oggi». Sicché (sono parole di Montale, quelle che stiamo citando, in sede di prima recensione degli Strumenti umani) «sarebbe ingannevole credere che il verso sia andato distrutto; comunque l’avvicinamento alle forme del poema in prosa è dato dal fatto che il lettore deve indugiare a mettere d’accordo l’occhio con l’orecchio, ponendo o inventando cesure nelle linee più lunghe; dopo di che il polimetro si rivela per quello che è: uno strumento che riesce a felpare e interiorizzare al massimo il suono senza peraltro portare al decorso totalmente orizzontale della prosa. Non si tratta in ogni modo,» (sono sempre parole sue) «di un verso del tutto libero: tale non fu nemmeno il verso del precursore Whitman. E nemmeno si tratta di prosa perché un eventuale dicitore dovrebbe fare i conti col succedersi dei vari livelli stilistici, unica ma efficace sostituzione di quella che fu nella lirica l’alternanza di modi “maggiori” e “minori”». Sarebbe dunque ormai necessario procurare una precisa descrizione fenomenologica degli istituti che caratterizzano la poesia di questo Sereni: tra cui è l’iterazione, sigillo emblematico del suo codice espressivo messo acutamente in evidenza dalla lettura di Mengaldo (va detto, infatti, che è questa la direzione in cui si sono già inoltrati alcuni dei critici più attenti). Ma soltanto un’analisi esaustiva della modulazione più sua, costantemente tenuta sul filo di un particolarissimo dialogo-monologo (sensibile mimesi dell’esperienza di un uomo del nostro tempo, «per il quale cultura e sensazione immediata, realtà e sogno si presentano come un tutto indivisibile»), solo, dicevamo, una verifica a tappeto potrà darci la misura esatta del ruolo che gioca, dentro la pluralità dei livelli, la presenza persistente di una linea lirica alta, diciamo di nuovo petrarchesca: una linea la cui tensione si regge su un libero, inventivo contrappunto affidato al livello prosastico; il quale, a sua volta, mentre funge da messa a terra di quella tensione, ne è in qualche modo toccato, percorso dal suo guizzo.

Tra le possibilità  nuove, raggiunte per questa via da Sereni, va annoverata soprattutto la conquista della dimensione narrativa che un tempo gli era stata preclusa. Non sfugge a nessuno l’essenza di Frontiera e del primo Diario d’Algeria: situazioni liriche istantanee, isolate anche quando unite in catena, connotate in genere da una sintassi nominale, paratattica, dove l’aggettivo, solo o in coppia, precede di norma il sostantivo, la categoria dell’azione tende a ridursi alla funzione primaria del verbo essere, e gli snodi costruttivi, affidati perlopiù alle congiunzioni più elementari, e, o, ma, s’impiantano talvolta sul se, più spesso, specie in clausola, su un che relativo cui consegue una proposizione risolvibile agevolmente in un aggettivo o comunque in una forma nominale del verbo: del tipo «ombra che si dilunga | nel tramonto tenace».

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Ora, invece, tra il ’55 e il ’65, Sereni si è costruito lo strumento di una nuova lingua poetica in cui gli riesce di articolare narrativamente la situazione, sciogliendo in movimento la sua stilizzata cifra iniziale; è arrivato tenacemente a conquistarsi la possibilità di dare voce a tutto il ventaglio dei sentimenti, passando dal dialogo con i vivi, dai meandri del sogno a quelli della fabbrica, dalla tenerezza all’ironia, dalla gioia allo sdegno, al risentimento, alla rabbia sferzante. Ne è vitalmente esaltata la grande libertà degli Strumenti umani, e degli altri versi venuti in seguito, dove è dato di leggere anche la risposta di un poeta vero, in piena coerenza con se stesso, alle forti sollecitazioni della società e della cultura italiana del dopoguerra. Pure la lezione montaliana (sia detto incidentalmente) è messa ora a miglior frutto, coadiuvando se non a cangiar in inno l’elegia, a perseguire un realismo, che come ebbe a scrivere di questo Sereni lo stesso Montale, «rompe la crosta dell’elegia». Ed è la risposta concreta, costruttiva (non solo programmatica) alla situazione di crisi denunciata alla svolta degli anni Sessanta dalla neoavanguardia, che ebbe il merito (quale che sia il giudizio sulla sua reale portata creativa) di richiamarvi clamorosamente l’attenzione.

Da Dante Isella, La poesia di Vittorio Sereni, Atti del Convegno, Librex, Milano, 1985 (poi come prefazione a V.S. Tutte le poesie, a cura di Maria Teresa Sereni, Mondadori, Milano, 1986; ora in Dante Isella, Per Vittorio Aragno, Torino, 2013).

 

PIER VINCENZO MENGALDO

 

Da ‘Iterazione e specularità in Sereni’

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Ora, se l’iterazione è la dominante formale degli Strumenti Umani, ci si può anzitutto chiedere quale sia il suo effetto stilistico. Ebbene io credo che proprio alla continua presenza di questo modulo sia in gran parte dovuto quel che di inconfondibilmente legato, fuso e come agglutinato ha lo stile dell’ultimo Sereni, quella sua tonalità di spenta grisaille: iterante lentezza ritmica, affidata bene spesso alle sequenze e come lasse di versi lunghi, e programmatica parsimonia cromatica fanno l’incanto di uno stile che punta tutto sull’apparente uniformità con cui gioca ogni volta sulla sua scacchiera pochi elementi base, rinunciando a splendore timbrico e varietà e facilità di ritmi in favore di un lavoro più sottile di parca, sapiente modulazione armonica (e il sovrapporsi e incrociarsi di temi verbali ripetuti e variati rende infatti la forma poetica di Sereni spesso così simile a quella musicale della fuga). Che è anche il modo con cui il poeta supera vittoriosamente il suo difficile compito di post-ermetico, di conciliare e fondere colloquialità narrativa e liricità, attraverso una specie di lievitazione lirica del discorso interiore, che conserva sempre la sua durata e il suo respiro naturali di discorso.

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E anche in un altro senso la figura dell’iterazione verbale può portarci, mi sembra, al cuore delle intenzioni del poeta in quest’opera. Come è ormai costituzionale di molta poesia recente, anche questa di Sereni nasce da un processo di crisi del linguaggio, in margine o meglio nonostante una congenita difficoltà di dirsi, di parlare, una sfiducia nella labilità e consunzione delle parole, e relativa sfiducia nelle loro possibilità di ricezione. Si direbbe che le continue ripetizioni, la continua sollecitazione della funzione ‘fatica’ del linguaggio, siano come un tentativo di prender meglio possesso delle parole, di farle più proprie, quasi che solo iterandone la pronuncia il poeta riuscisse a trattenerne la dispersione e fuga, e a ristabilire il problematico contatto con il lettore. Nulla di sorprendente che proprio da una tale crisi di sfiducia nella parola (di cui sono, ancora testimonianza le esitazioni del citato I versi) nasca, per apparente paradosso, questa specie di atteggiamento magico nei confronti della parola stessa, che ha bisogno di essere più volte evocata per consistere e manifestarsi.

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Analoga funzione prima protettiva e certificante che dialettica ha il tema del rispecchiamento e sdoppiamen­to dell’io, quasi che solo in questo rifrangersi in un altro o in un doppio di sé l’io possa riconoscere se stesso e saggiare la propria esistenza: il dialogo, prima che stru­mento di verifica di idee e sentimenti, è perciò verifica del proprio stesso esistere. Si è accennato alla continua presenza negli Strumenti umani di personaggi dialoganti col protagonista che dice io, a volte anonimi e indeter­minati (e ci sono anche personificazioni, come la «gioia» di Appuntamento a ora insolita o l’anima di Intervista a un suicida), a volte ambigui fra il ruolo di effettivo ‘altro’ e quello di maschere di un antagonista che sorge dallo stesso io sdoppiato (donde la potenziale, montaliana po­livalenza del tu). Ma, più determinatamente, sono i temi complementari dell’amore e dell’amicizia a incarnare meglio l’esigenza di protezione e verifica attraverso il ri­specchiamento e il dialogo («Dunque ti prego non vol­tarti amore | e tu resta e difendici amicizia»). É perciò naturale, e quasi programmaticamente enunciato fin dai primissimi versi del libro («Con non altri che te | è iI col­loquio», Via Scarlatti), che il tema ricorrente della don­na e dell’amore si specifichi di fatto come colloquio e dialogo in praesentia, senza residui (ancora appariscenti nelle raccolte precedenti) di remota e folgorante numi­nosità. All’interno del motivo dell’amicizia, altrettanto portante nell’economia dell’opera, tale processo di ri­specchiamento protettivo diviene anche più evidente, fi­no alla ipotiposi del «grande amico», nell’omonima poe­sia, dove fra l’altro è enunciato («io lo seguo, sono nella sua ombra») il tema dell’amico come guida da seguire, con fiducia o rassegnata ironia, che ritorna poi in Corso Lodi e anche in Pantomima terrestre.

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Nel suo continuo bisogno di certificazione — come re­cupero della propria storia e ricerca di dialogo e rispec­chiamento nell’altro — l’autore degli Strumenti umani si qualifica tipicamente come poeta dell’insicurezza, dell’identità minacciata: un’insicurezza — abbiamo nota­to — anzitutto verbale, che provoca per iperreazione quei fenomeni di ridondanza e pronuncia insistita cui è per tanta parte legato lo stilema dell’iterazione; così co­me il dubbio sulla propria identità si rovescia in conti­nua e sia pure aleatoria dichiarazione d’identità (Un so­gno rappresenta bene allegoricamente questa situazione originaria), affermata attraverso tentate ricostruzioni della continuità con il proprio passato o insistite richie­ste agli altri di conferme al proprio esistere. Abbiamo accennato all’ambivalenza che assume per esempio il te­ma della ripetizione dell’esistere negli Strumenti umani, tra certezza confortante di un permanere di se stesso e delle cose e, per usare le parole degli Immediati dintorni, «orrore del vuoto nella ripetizione». Ma l’ambivalenza, prodotto di quell’insicurezza, è la generale condizione dei messaggi dell’opera. L’interrogazione da una parte, l’ossimoro dall’altra ne sono le figure retoriche tipiche.

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Tutto ciò non si fonda soltanto su una situazione psi­cologica personale, ma anche e più su un’esperienza storica generale, e da questo nesso il poeta trae la forza specifica delle proprie affermazioni. Sereni non può più credere, evidentemente, alla portata automaticamente universale della sua biografia nel senso della «bella bio­grafia» di ungarettiana memoria; ma, per quanto non lo esibisca mai, crede ancora — come ha sottolineato ener­gicamente Fortini — alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della ‘mo­rale’ che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia. Ora la sua poesia nasce fondamentalmente come conseguenza e tentativo di ri­sarcimento di una ferita non rimarginata (e ferita coi suoi sinonimi è ricorrente negli Strumenti umani), di un mancamento, una lacuna che stanno alle origini, e che diventano colpa (donde la frequenza di situazioni e im­magini a carattere processuale). Basta stare alla lettera stessa delle parole del poeta per sapere che questa ferita è stata la guerra e, ancor più, la prigionia. La prigionia come sospensione, come parentesi, personale e storica, che ha costretto o consentito di continuare a «vivere… oltre la dittatura e ignorando la dittatura», piuttosto che contro la dittatura, impedendo di partecipare a quel tentativo, finalmente, di costruirsi responsabilmente e attivamente la propria storia, senza più subirla, che è stata la Resistenza.

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Da Pier Vincenzo Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, “Strumenti critici”, VI, 17, febbraio 1972, pp. 19-48 (poi in la tradizione del Novecento da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano 1975; come postfazione a V. S., Gli strumenti umani, Einaudi, Torino, 1975 e in Per Vittorio Sereni, Aragno, Torino, 2013).

 

Da ‘Il solido nulla’

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Ma il fatto è pure che nel Diario la lingua ermetizzante del cavaliere di grazia di Frontiera riveste, o piuttosto è violentemente investita da contenuti, nel senso forte del termine, nuovi e più densi e ricchi: nuovi non solo rispetto al Sereni di anteguerra ma anche rispetto alla più facile novità ‘resistenziale’ di molti suoi colleghi pentiti dell’ermetismo (Sereni, come in diverso modo Luzi e Zanzotto, non ha mai sentito il bisogno di pentirsi dei suoi avvii ermetici). E allora lungo il Diario — cioè più evidentemente nella sezione eponima che ne La ragazza d’Atene – quella lingua pur sempre inquadrata nella grammatica ermetica, rispetto alla levitas di Frontiera acquista gravità e come si rapprende: il primo Sereni non avrebbe potuto scrivere versi come questi splendidi che chiudono Sola vera è l’estate: «Ora ogni fronda è muta | compatto il guscio d’oblio | perfetto il cerchio». Nella metamorfosi per cui la parola-tema ungarettiana ed ermetica oblio si solidifica in compatto guscio, e le pause non danno più ma sottraggono aria fissando l’apoftegma lirico in una durezza da epigrafe, c’è tutto il senso della transizione, vero e proprio scatto, fra il primo e il secondo Sereni. Anche l’attitudine narrativa, che in Frontiera era ancora dispersa in aneddoti e mini-novelle liriche, nel Diario si rassoda e direi si centralizza, diramando nelle esili nervature dell’autobiografia poetica la forza di una struttura epico-romanzesca di pregnante essenzialità. Due grandi proiezioni dell’io si accampano nel Diario: quella del viandante nella prima parte, quella del prigioniero nella seconda (tralascio anche qui l’attuale terza parte, di redazione più tarda). «Presto sarò il viandante stupefatto | avventurato nel tempo nebbioso» dicono due versi de La ragazza d’Atene: dove a condensare la curvatura ancora solipsistica dell’enunciato e la rarefazione ermetizzante degli aggettivi interviene l’intensità ‘metafisica’ del tema affidato ai sostantivi contrapposti, un tempo non più solo psicologico a fronte del quale barcolla il Wanderer, figura privilegiata, in tutta la modernità, dell’iniziazione: alla storia, alla ‘vita’ stessa. Nella consecuzione La ragazza d’Atene-Diario d’Algeria si disegna nitidamente, quasi come rovescio archetipico di un diritto storico-esistenziale, un processo per il quale l’iniziazione — a un tempo avventura, scoperta più profonda di sé, esilio e fuga in un diverso spazio-tempo («Europa Europa… sono un tuo figlio in fuga…») — si blocca irreversibilmente in prigionia: quella prigionia sereniana di cui con tutte le implicazioni si potrebbe dire, ribaltando una celebre definizione della conquista di Dio, che egli non l’avrebbe trovata se non l’avesse cercata.

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La dialettica, circolarità e coinvolgimento di liricità `alta’ e ‘prosa’ (meglio: vari livelli di prosa) è organica all’atteggiamento poetico specifico di questo Sereni —assai più preparato dal Diario che da Frontiera —, cioè il compenetrarsi e scontrarsi di un’enunciazione metafisi­ca (non orfica, per favore) e di una esistenziale, o stori­co-esistenziale. Finora è stato sottolineato piuttosto il secondo aspetto, ma credo convenga, oggi, correggere se non invertire la prospettiva. Radicalizzo appena: il Sereni degli Strumenti è forse un grande lirico puro, metafisico e verticale, abilmente travestito per non dir truccato da poeta-prosatore e narratore esistenziale. Così, si può aggiungere, l’uomo — e un po’ anche lo scrittore — celava il suo radicalismo emozionale, etico e intellettuale nelle forme (nel duplice senso del termine) della discrezione borghese, del riformismo amareggiato, dello stesso positivismo ‘lombardo’.

Questa dialettica mascherante penetra anzitutto nei temi. Basti riflettere a come quello del viandante stupe­fatto permanga, mimetizzato nel rango anti-epico della ‘prosa’, entro il motivo conduttore del viaggiatore che negli Strumenti, e poi in Stella variabile, attraversa in­quieto e sconfitto i luoghi di un tempo non amato nelle vetture o negli aerei della società affluente. E il prigio­niero d’Algeria rivive il suo sogno deietto-superbo di cattività nelle figure prosastiche della fabbrica e della stessa disumana città capitalistica, che volta a volta si ro­vesciano in evasioni nel «posto di vacanza», perplessi tentativi di spremerne un’umana positività, proiezioni nell’utopia della «città socialista». Ma, ancora, spia deci­siva è il linguaggio. In Scoperta dell’odio, un pronuncia­mento etico-conoscitivo fra i più perentori e duri di Se­reni si traveste di relatività nella sprezzata allocuzione colloquiale «gente»; e nell’esatto pendant di questa poe­sia, Ancora sulla strada di Creva, uguale funzione spetta, di fronte a una sapienzialità altrettanto assoluta, alla ca­denza lombarda («…Maschera detta amore, I bella roba che sei»). Si può pescare ad apertura di libro. Ecco il fi­nale di Nel vero anno zero (le «nuove belve onnivore» che «a balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night»). Ecco naturalmente la grande conclusione, La spiaggia: tutta tesa nella dissonanza — e nella climax — fra il suono sgradevolmente stridulo della «voce saputa» che «blate­ra» entro il ricevitore e quello sacrale del mare annun­ciante che i morti «parleranno»; e fra questi estremi tut­ta percorsa da trapassi e corti circuiti fra ‘alto’ e ‘basso’, grave e feriale («Sono andati via tutti» — «Non torneran­no più», e nella seconda strofa il contrasto fra la solen­nemente rallentata agnizione: «Ma oggi su questo trat­to di spiaggia…» e la controeloquenza, la battuta prosastica ‘buttata via’ di «E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse»).

[…]

Anche questa via consente l’ingresso a Stella variabile. Subito vi risalta la coesistenza di due maniere: un procedere fluido e diffuso, stratificato e avvolgente-conglobante, che continua quello degli Strumenti; e una liricità compatta, compressa e chiusa in sé che appare e in parte è anche un ritorno ai modi del Diario. Lo stesso composto linguistico sembra sul punto di scindersi. A una più spinta e stridente sprezzatura nel registro basso («A certi che so non gli basta…», «sbrego», «Bellissimaaa», «di brutto», «scarpinando», ecc.) risponde il non raro candirsi del registro alto in partiture araldiche e raggelate (penso alla pittoricità sontuosa di Addio Lugano bella, al «vello dei dirupi nel velluto» di Interno, ai verbi di colore più che preziosi di p. 281): e la sempre cercata tensione fra i due poli ne acquista, come appunto a p. 281, un più marcato raschio di dissonanza. Anche in questo Stella variabile sta agli Strumenti un po’ come la Bufera alle Occasioni. Il fatto è che l’ultima raccolta, mentre sembra tenere le posizioni su cui era attestata la precedente, ne constata sul campo l’indifendibilità e le abbandona al prossimo occupante, o al deserto. Il metodo poetico dell’av­volgente approssimazione esistenziale, ricca di confronti e di mediazioni, a un ‘vero’ metafisico, ora è come se li­berasse allo stato puro i propri elementi, lasciandoli or­bitare nel vuoto. L’io giace irrelato a una realtà che lo ignora, anzi lo espelle (p. 260), rispondendo col suo mu­tismo al mutismo che lo invade (p. 239); l’inchiesta si ravvolge e ristagna, come meglio di tutto dice con la sua grandiosa angustia la pur alta costruzione, che continua­mente si avvita e ricade su di sé, del poemetto Un posto di vacanza: e la verità si dà ormai come immediata e lan­cinante rivelazione del negativo.

La resa, disperatamente lucida, al vittorioso assedio del negativo è segnalata da una serie sistematica di im­magini-concetti allarmanti che si aggirano negli àmbiti confinanti della vana dispersione ed emorragia (cifra questa cui Sereni critico aveva genialmente ricondotto il poetare dell’amato Apollinaire) e della stagnazione e cri­stallizzazione in non-essere. E dunque — offro appena una traccia per il lettore — si susseguono in altrettanti precipitati: l’attimo di cecità e silenzio, il rigirarsi e arro­tolarsi su di sé di ogni cosa, il dissanguarsi della memo­ria, l’omissione il mancamento il vuoto, l’amnesia e il sonnambulismo, lo specchio uniforme e immemore, la destituzione, il sonno-morte, il domani come inapparte­nenza, il colore del vuoto che è di tutti il più indelebile; e via dicendo inesorabilmente.

Questa percezione di sé e dell’essere come sperpero o glaciazione può assumere trasparenti correlati nella for­ma, che volentieri tende ora al gomitolo e alla spirale (parte finale di Posto di lavoro, Lavori in corso III…), ora alla «martellata lentezza» — così un perfetto titolo —, come nella mirabile contemplazione dell’essenziale di Fissità («una fissità. | Ogni eccedenza andata altrove. O spen­ta»). E la tecnica articolatissima della ripetizione, già strumento privilegiato del pathos dubitante della ricerca, qui, quando non veicola precisamente l’amara revisione del proprio passato, residuando la differenza da quello come scacco e strozzatura, diviene sempre più ciò che in precedenza era solo talvolta, segno di un esasperante pié­tiner sur place e vera e propria tautologia (v. esemplar­mente p. 266). Non per niente il viandante del Diario e degli Strumenti si scopre ora un «trapassante» (p. 272), e il tema là minacciosamente strisciante del viversi come un morto in Stella variabile si assolutizza senza remissione. Come formula decisiva del nichilismo dell’ultimo Sereni valga quella, così frequente, per cui le immagini, di ogni tipo, di sperpero, ristagno, falso movimento si cristalliz­zano finalmente nell’assoluto del negativo e del nulla. Il «tempo indifferente» si capovolge nel «pedalare all’in­dietro | lungo un muro di nausea» di «quelli che erano — o parevano — arrivati di slancio»; l’intravvedere si converte in non vedere; il dormiveglia-sogno precipita nel sonno-morte; lo svaporare dell’estate diviene «mortale calcina­zione»; il viaggio «di tunnel in tunnel» è un percorso dall’abbagliamento alla cecità. E quel convertirsi dinami­co, attraverso parola e memoria, dello spazio in tempo che negli Strumenti aveva costituito ad esempio il fascino grave della scoperta di Amsterdam, ora, distruggendo la «recidiva speranza», si trasforma in questa fredda vertigine di ossimori e catacresi: «attonito | di tempo pietrificato in spazio | di mutismo».

Sviluppando impavidamente il proprio «esistenziali­smo storico» (Fortini) di matrice montaliana, il poeta di Stella variabile lo spinge di fatto a un punto di non ritor­no, esaurendolo se non liquidandolo. E, dev’esser chiaro, in modi diversissimi da quelli dell’ultimo Montale: che, non senza cinismo, ha tentato di salvare il potere carisma­tico delle occasioni privilegiate, angeli mediatori fra esi­stenza e verità metafisica, con lo stemperarle in una conti­nuità quotidiana che, al suo cinque per cento vitale, continua però a volersi esemplare, sostituendo al lampo dell’agnizione la discorsività del commento affabulante e disincantato. Sereni, più realista del re, non si è lasciato questa via di scampo, che tanti altri oggi variamente percorrono. Se nichilismo dev’essere, nichilismo sia: abbagliamento accecante e pressione schiacciante del silenzio sulla parola, che perciò non può dire più quel nulla attraverso il discorso, ma negli interstizi, sacche e rovesci di questo. Il solido nulla cui è approdato tutto un esaurimento individuale e storico è guardato con una fissità così spietata e ineluttabile da rendere la lettura del libro, letteralmente, quasi intollerabile. E da produrre risultati di poesia forse meno organici e compatti, globalmente, degli Strumenti umani, ma bene spesso non meno alti. In altri termini. L’autore degli Strumenti sapeva, con Hegel, che la poesia, dimorando nel «regno infinito dello spirito», non può che sottrarsi alla «indigenza… della prosa»; ma sapeva insieme affrontare le necessarie vendette della prosa. Era ben cosciente che l’onore del lirico moderno che non voglia ridursi ad ordinario amministratore o a falsettista, debba giocarsi entro il rischioso territorio del «grande stile»; ma sospettava che altrettanta verità si contenesse nella battuta di Fontane, maestro dell’understatement e alto cantore della ‘prosa della vita’: «La grandezza dello stile ignora e passa sopra a tutto ciò che umanamente è interessante». L’ultimo Sereni sembra abitare ancora il luogo della mediazione fra le due istanze; ma il suo vero indirizzo non è più quello.

 

Da Pier Vincenzo Mengaldo, Il solido nulla, “L’indice dei libri del mese”, 8 ottobre 1986, poi in La tradizione del Novecento, nuova serie, Vallecchi, Firenze, 1987: pp. 377-386 e in Per Vittorio Sereni, Aragno, Torino, 2013).

 

 

GILBERTO LONARDI

 

«Ahi troppo tardi, | e nella sera delle umane cose, | ac­quista oggi chi nasce il moto e il senso». Si nasce ormai troppo tardi, rispetto al tempo della vitalità e del pieno sentire. E il soggetto, già per questo primo Leopardi, quello della canzone per la sorella Paolina, è per sempre separato, la sua conciliazione col mondo è perduta. Ri­spetto a questi annunci della modernità, Sereni è, insie­me, vicino e lontano. Anche lui ci viene incontro, dopo le prime prove di Frontiera (1941), dopo l’esperienza del prigioniero consegnata al Diario d’Algeria (1947), come e sempre più non conciliato col proprio tempo: «Non lo amo il mio tempo, non lo amo», dice negli Strumenti umani (1965). E anche lui col sentimento di una doloro­sa sfasatura tra sé e il kairós storico, il momento storica­mente giusto. Rigirato in un senso di colpa ignoto a Leo­pardi, risentito dentro una coscienza storica che ormai segna tutto il soggetto, c’è comunque anche un «troppo tardi» sereniano.

La poesia stessa di Sereni già a partire dal dopoguer­ra, là dove incominciano Gli strumenti umani, ha biso­gno del rimorso, quello dello «scolaro attardato» e del sempre in ritardo. Le occasioni in cui si gusta almeno l’ombra della pienezza finiscono esse stesse in «un’onda di rimorso», come per la passione sportiva, nel dopo-partita domenicale o dopo il passaggio della «Mille Mi­glia» automobilistica. Questo accade all’eroe di Sereni, anche troppo consapevole, anche troppo all’erta. Ma leggiamo ancora negli Strumenti umani: «Tardi, anche tu li hai uditi I quei passi che salivano alla morte I in­drappellati…». Così si avvia Nel sonno. E si chiude tor­nando a quel senso di perdita, di arrivo in ritardo, per «quei passi di loro tardi uditi». Sono i passi dei partigia­ni, della resistenza armata, appuntamento mancato. Non resta che il sonno di un’Italia addormentata e «la solitudine, solo orgoglio…». E al chiudersi dell’esperien­za di Sereni, ecco, meno esistenzialmente precisato, con un tono di amaro epilogo, il «Se non fosse così tardi» di Un posto di vacanza, ora in Stella variabile (1981).

Ritrovarla, questa cadenza leopardiana, in Vittorio Sereni, in altra condizione storica, in altra condizione del soggetto, non vuole dire cercare una «fonte», ma piuttosto una più o meno inconsapevole prosecuzione dentro la modernità ormai matura, colma di coscienza storica e, nei suoi abitanti più riflessivi e più disposti all’inermità, di senso di colpa. Ben dentro ormai, diceva con qualche anticipo Fichte, l’età della «compiuta col­pevolezza».

[…]

Quel venir meno della visione più, dicevamo all’in­grosso, contrastiva degli Strumenti umani, che non c’era prima e non c’è più dopo, può tradursi in un passaggio importante per Sereni: dal Diario d’Algeria in poi si at­tenua fino a sparire la tenerezza per il proprio stesso io — «E tu mia vita salvati se puoi»… «O mia vita, mia vi­ta…» —, e, dopo gli Strumenti, scompare il tono di elegia che si accompagna a quella tenerezza narcisistica e cor­diale: scompare infatti l’elegia che si accompagnava a quella rappresentazione che dicevamo, di un io difetti­vo, sempre «in ritardo» o in disguido sul mondo, si trat­tasse, un po’ come in un famoso episodio della Coscienza di Svevo, di un funerale, o della storia; di un io sem­pre inferiore (ma sempre cocciutamente attento) al «fuoco di un dovere» (in Una visita in fabbrica).

Come ha fatto, il Sereni più inteso alla rappresenta­zione per personae, quello degli Strumenti umani, a sal­vare insieme l’adulto fuoco del dovere — che almeno ne­gli Strumenti si traduce nell’ansia di darsi una legittimità ideologica — e l’elegiaca mira a quanto c’è in lui, o nel suo personaggio, di «puerile», di incompleto, di tratte­nuto dall’intangibile mondo infantile, dal suo andare, sempre, «per farfalle | e per baratri…» (come aggiungerà ormai più tardi, in Di taglio e cucito)?

Sereni ha, appunto, inscenato, in alcune grandi poesie degli Strumenti, questa stessa divisione dell’io, per sa­narla. E così un’ombra, o meglio una presenza vuota, un «materiale» riflesso dell’io — una donna amata in Appun­tamento a ora insolita, o il padre nel Muro, o la nonna in Ancora sulla strada di Zenna —è incaricata, in modi sem­pre cangianti, ma dentro, specie negli ultimi due casi, una stessa simbolica del dialogo tra senex e puer, di sma­scherare ridendo qualcosa che il soggetto nasconde, ma­schera nelle sue contraddizioni. Questi riflessi dell’io si muovono nell’immanenza. Non «mediano» verso alcun­ché, tanto meno verso un’ipotesi almeno del divino, co­me invece succede, con una più accorta pratica di auto-protezione chiesta all’ambiguità stessa del poetico, nel Montale dialogante con l’Angelicata, con Clizia, tra Oc­casioni e Bufera. No, si veda come il padre parli semmai secondo una specie di nichilismo ridente, il più possibile ormai senza pathos, e forse anche per questo sulla scia della grande saggezza che arriva da un autore al quale solo l’ultimo Sereni ci conduce dichiaratamente: da Montaigne. Nel Muro il padre sana del figlio «puerile» una specie di narcisismo della pietas filiale, che è però ambigua, inquinata auto-compassione. È così che intan­to Sereni salvava, negli Strumenti umani, proprio inscenandola in un suo alto metafisico teatro, insieme l’elegia del soggetto puer (quello, osserva Hillman, che ha sem­pre una ferita, dall’antico in poi, e col tempo ha sempre il rapporto del cacciatore di farfalle) e il discorso adulto, pronunciato intanto, osserva Pier Vincenzo Mengaldo, con meravigliosa naturalezza di voce, in una lingua su­perbamente ricca di escursioni e livelli, in inventivo con­trappunto, come ha sottolineato Dante Isella, con la prosa e il parlato. E, col discorso adulto, si salva la di­dassi di alcuni grandi veri.

Ma in Stella variabile questo inscenamento, di lonta­no sfondo dantesco-montaliano, cede la sua stessa obli­quità e capacità di polarizzazione, e tutto o quasi vi si di­ce in linea retta, o per precipitazione immediata. Mentre l’io si scopre «rifiuto dei rifiuti», si eclissa la voce del puer, e resta il nudo battere e accanirsi del senex, puni­tore di se stesso e delle delusioni stesse della storia e del presente, nel rovesciarsi del mondo. Ecco infatti il rove­sciarsi del tempo, con viaggi e percorsi che procedono all’inverso, coi «nati per perdere» che «fuori tempo massimo | pedalano all’indietro». O con la mano, la ma­no della madre mai prima espressamente nominata, che sboccia «a ritroso» da una parete d’argilla «lungo la tra­fila | dei morti». Ed ecco l’imporsi del vuoto, parola ri­tornante spesso in Stella variabile e che chiude Autostra­da della Cisa: «Ancora non lo sai | — sibila nel frastuono delle volte | la sibilla, quella | che sempre più ha voglia di morire —| non lo sospetti ancora | che di tutti i colori il più forte | il più indelebile | è il colore del vuoto?».

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Da Gilberto Lonardi, Introduzione a V.S. Il grande amico. Poesie 1935-1981, commento di Luca Lenzini, Rizzoli, Milano, 1990, pp. 5-25.

 

GIOVANNI RABONI

Credo — e lo dico con molta semplicità perché non ci vedo (e nemmeno ci ho mai visto, tutti i risultati che Sereni via via otte­neva recando innanzitutto ben visibili le stigmate dell’inevitabi­lità e della grazia) niente di «sorprendente» — che L’opzione sia uno dei racconti più belli, anzi, in assoluto, uno dei più bei testi narrativi pubblicati in Italia nella seconda metà di questo secolo: un piccolo, compatto, scintillante capolavoro in cui l’antico piace­re romanzesco di creare con le parole una realtà vivibile con cu­riosità ed emozione in ogni suo indugio descrittivo e in ogni sua piega di senso è continuamente infiltrato, esaltato e trasfigurato da una tensione spasmodica fino al dolore e tuttavia sottilmente, squisitamente esilarante verso un significato generale e trascen­dente, verso una misteriosa eppure lampante allegoria. E a que­sto proposito bisognerà pur trovare la fermezza di dire che persi­no qui, in questo esito esteticamente supremo (al quale, per altro, vanno avvicinate, quasi sullo stesso piano, parecchie altre pagine di questa raccolta, dalle già citate, e precocissime, Arie del ’53-­’55 a quegli aguzzi, abbaglianti frammenti di una grande metafo­ra solo parzialmente emersa che sono L’assunzione I, Dall’esilio, Trasloco, L’assunzione in questa abbagliante epifania del «prosatore in prosa» nel quale Sereni ha trovato infine la forza e il coraggio (anzi, «la force et le courage», verrebbe voglia di dire, ricordando il suo e nostro Baudelaire) di metamorfosarsi senza apparenti residui per tacitare davvero fino in fondo i suoi rimorsi nei confronti della realtà, per saldare davvero fino in fondo i suoi debiti verso la torbida integrità della vita, ad avere l’ultima paro­la, quella che non si legge né si sente in nessun luogo praticamen­te raggiungibile di questo o quel testo e che tuttavia, a saperla scovare nella cassaforte di silenzio dove è custodita, ci darebbe su­bito la chiave, il segreto, la combinazione di tutto, è poi pur sempre — capovolgendo o meglio raddrizzando, rimettendo sui propri piedi l’ipotesi di lettura che ci ha condotti fino a qui il poeta che Sereni, nel suo gioioso-affannoso tendere le braccia verso l’invi­diato, corteggiato e infine trionfalmente posseduto «sortilegio» della prosa, non ha mai, nemmeno per un istante, desiderato o te­muto di non essere.

Da Giovanni Raboni, Introduzione a V.S. La tentazione della prosa, Mondadori, Milano, 1998.